Da Noventa la testimonianza del gruppo “Amici di Panik”. Il conflitto iniziato il 27 settembre si è concluso con il trattato di resa firmato dal presidente armeno e da quello azero. I morti accertati sono 1.200, soprattutto giovani militari fra i 18 e i 20 anni; 2.000 i dispersi, 3.000 i feriti, in uno Stato che conta 3 milioni di abitanti

Un mese e mezzo: tanto è durato l’ultimo capitolo del conflitto tra Azerbaijan e Repubblica Armena per la contesa della regione del Nagorno Karabakh (o Artsakh, come lo chiamano gli Armeni), regione in territorio azero, ma da sempre a maggioranza armena. Iniziata lo scorso 27 settembre, la guerra si è consumata tra aspri conflitti, tregue instabili e atroci ostilità, per concludersi il 10 novembre a Yerevan, capitale dell’Armenia, con un trattato di resa firmato dal primo ministro armeno Pashinyan e dal presidente azero Aliev, su proposta del presidente russo Putin. Un conflitto che, oltre a richiamare alla memoria il genocidio patito dal popolo armeno durante la Prima guerra mondiale, evoca una lunga storia di sofferenza e prevaricazione ai danni del popolo armeno, che tocca anche tutti coloro che sono emigrati da questo piccolo stato caucasico.

E in qualche modo anche la comunità parrocchiale di Noventa di Piave, dove da alcuni anni è attivo un gruppo “Amici di Panik”. Panik è un piccolo villaggio di circa 3.500 abitanti di religione cristiana cattolica, situato sull’altopiano del Caucaso a 1.800 metri di altitudine, nel nord-ovest dell’Armenia, al confine con la Turchia.
Abbiamo sentito Sonia Magoga, una referente del gruppo “Amici di Panik”, che ha avuto un filo diretto con alcune famiglie durante i giorni del conflitto.

Il suo è un racconto che fluisce rapido e tumultuoso, come la corrente di un fiume in piena: “Il gruppo Amici di Panik è un’iniziativa avviata e accolta tre anni fa; il progetto di sostegno a distanza permette, a chi lo desidera, di sostenere economicamente la comunità civile, la scuola e le attività religiose, in collaborazione con il sindaco del villaggio e il parroco, padre Karnik. In questi anni abbiamo instaurato relazioni umane profonde e stabili, alcune persone di Noventa hanno fatto visita a diverse famiglie nel villaggio e si sono creati rapporti di amicizia tali che in questi giorni abbiamo ricevuto costantemente notizie di ciò che stava accadendo”.
Continua Sonia: “Quasi ogni giorno ci sentivamo con alcune signore del villaggio, per lo più via Whatsapp. All’inizio tutti gli uomini erano stati richiamati alle armi, poi invece sono stati arruolati per il fronte solo i volontari e i soldati di leva, che in Armenia dura due anni”.

Padre Karnik, sacerdote del villaggio, che parla molto bene italiano perché ha studiato in Italia per diversi anni, “ci ha inviato delle foto dei parrocchiani radunati in chiesa che pregavano per i soldati e soprattutto perché finisse la guerra”. Ci sono stati giorni di forte angoscia: “Le notizie dal fronte non arrivavano, i ragazzi chiamavano pochissimo per il timore di essere intercettati dai nemici. Nel villaggio le donne si organizzavano per raccogliere viveri e indumenti pesanti da inviare ai soldati a cui mancava tutto. Già pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, nei primi giorni di ottobre, sono cominciati ad arrivare nella capitale armena di Yerevan gli sfollati dal Nagorno Karabakh, circa 100 mila persone su una popolazione di 150 mila: le famiglie fuggivano dai bombardamenti senza avere il tempo di portare via nulla. Arrivavano tanti bambini, donne e vecchi, mentre gli uomini rimanevano a combattere. Le famiglie con cui siamo in contatto, usando i soldi che erano stati inviati dal nostro gruppo di Noventa, hanno acquistato del cibo e padre Karnik ci ha informato che sono riusciti a inviare ben 2 tonnellate di viveri per gli sfollati e i soldati”.

Anche il villaggio di Panik ha pagato il suo prezzo di sangue in questo conflitto, racconta la nostra interlocutrice: “Il figlio della maestra elementare, che avevamo conosciuto l’anno scorso durante il nostro viaggio a Panik, un ragazzo di 23 anni, campione di Jiu Jitsu, è morto, come altri giovani che non sono più tornati. Tanti anche i feriti, tra cui il nipote di un’altra signora che abbiamo conosciuto e con cui siamo rimasti in contatto quasi giornaliero, che si è miracolosamente salvato da una bomba che ha dilaniato i suoi compagni, ma che ora non sente e non parla per lo shock subito”.

Ora, dopo 45 giorni di guerra incessante, il conflitto è terminato: i morti accertati sono stati 1.200, soprattutto giovani militari tra i 18 e i 20 anni, 2.000 sono i dispersi e 3.000 i feriti, un’intera generazione di giovani per uno stato come l’Armenia composto da soli 3 milioni di abitanti. Il primo ministro Pashinyan, nel tentativo di salvare almeno quel poco che era rimasto prima di una disfatta totale, ha firmato un trattato di resa molto doloroso, che ha causato anche dei disordini tra la popolazione, che si è sentita tradita dopo lo sforzo fatto per cercare di resistere agli azeri.

Il trattato, infatti, stabilisce la restituzione all’Azerbaigian di sette province del Nagorno Karabakh e di tutti i territori conquistati dagli azeri; dello Stato precedente rimane ben poco: la via tra le montagne che collega al nord non potrà più essere percorsa perché diventata territorio azero, rimane un’unica via di collegamento con l’Armenia, il corridoio di Lacin che sarà presidiato dalle forze russe per 5 anni. E oltre al territorio perduto c’è il rischio di perdere anche molti beni culturali, infatti molti monasteri antichi dei primi secoli dopo Cristo ora passano al territorio azero.

“La guerra per il momento è finita ma i problemi no, bisogna pensare ai morti da recuperare e seppellire, ai feriti, agli sfollati, a un governo in crisi, al lavoro perso, all’inverno che incalza, alle fatiche di tutti i giorni in un Paese colpito dal conflitto e dalla pandemia di Covid. A Noventa – conclude Sonia Magoga – durante  questo periodo la gente ha pregato per questo popolo e ha imparato a conoscerlo un po’ di più e continuerà a sostenere il villaggio di Panik e i suoi abitanti”.

Articolo pubblicato da “Vita del Popolo”

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